Considerato un capolavoro del cinema moderno, “I soliti sospetti” (The Usual Suspects), pellicola diretta da Bryan Singer, venne svelato al mondo il 25 gennaio 1995 al Sundance Film Festival. Successivamente, approdò al prestigioso Festival di Cannes e soltanto nel mese di novembre raggiunse le sale italiane. Si tratta del secondo lavoro di Singer, che aveva debuttato due anni prima con il poco conosciuto ma affascinante “Public Access”. Nonostante il regista abbia intrapreso una carriera ricca di successi economici ma progressivamente meno rilevante dal punto di vista artistico, “I soliti sospetti” occupa un posto d’onore nella storia del cinema per la sua narrativa intricata e la sceneggiatura da Oscar di Christopher McQuarrie.

Singer passò dall’ottima accoglienza riservata al suo adattamento del racconto di Stephen King “L’allievo” (Apt Pupil) verso un cinema più commerciale. Abbracciando i cinecomic, si dedicò, tra il 2000 e il 2016, a ben quattro film del franchise degli “X-Men”, cercando di infondere una morale basata sulla tolleranza della diversità. Affrontò anche il deludente reboot di “Superman Returns” nel 2006 e pellicole ancora meno riuscite come “Operazione Valchiria” e “Jack il cacciatore di giganti”. Solo nel 2018 tornò al successo globale con “Bohemian Rhapsody”, film biografico su Freddie Mercury.

“I soliti sospetti” è un thriller neo-noir che sfida le percezioni dello spettatore attraverso una stratificata narrazione non lineare. Racconta la storia di un interrogatorio condotto dall’agente Dave Kujan su Roger “Verbal” Kint, interpretato da Kevin Spacey, un abile truffatore dalle doti verbali notevoli ma fisicamente disabile. Verbal racconta le vicende del suo gruppo, composto da Michael McManus, Fenster, Dean Keaton e Todd Hockney, che si intrecciano con quelle di un enigma umano: Keyser Söze, il misterioso artefice di una tremenda operazione che li coinvolge in un complotto per impossessarsi di una nave carica di droga.

La trama avanza in un crescendo di suspense, esplorando il tema dell’identità e della percezione, unendo in un perfetto equilibrio una complessa riflessione sul linguaggio cinematografico e la metafisica del Male. La fotografia di Newton Thomas Sigel e le composizioni musicali di John Ottman amplificano la narrazione ingannevole, costringendo il pubblico a rivalutare costantemente ciò che si crede di sapere.

La potenza del film risiede nella sua capacità di metamorfizzare continuamente la verità percepita, conducendo un’analisi che si ricollega alla filosofia del prospettivismo di Nietzsche. La figura sfuggente di Keyser Söze incarna infatti l’archetipo dell’identità imperscrutabile, simile al Mr. Arkadin di Orson Welles. “I soliti sospetti” non solo solleva interrogativi sulla fiducia e sulla capacità del cinema di manipolare la percezione, ma esplora anche il concetto di autenticità dell’identità stessa.

Negli anni successivi, le questioni relative all’identità e all’inganno si sono ripresentate nelle vite personali di Bryan Singer e Kevin Spacey, entrambi coinvolti in controversie legali legate ad accuse di condotta impropria. Ma questa, come spesso si dice, appartiene a un’altra narrazione.

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