Recentemente si è verificato un episodio che ha suscitato vasta eco nell’ambito giornalistico e al contempo messo in luce un aspetto discutibile della comunicazione mediatica. Il giornalista Brian Glenn, corrispondente dalla Casa Bianca per la rete conservatrice Real America’s Voice e noto sostenitore del movimento Maga (Make America Great Again), ha posto una domanda a dir poco inappropriata al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, durante una sua visita ufficiale negli Stati Uniti.

Nello Studio Ovale, prestigioso simbolo del potere politico americano, Glenn ha chiesto a Zelensky perché non indossasse un abito formale, lasciando intendere che l’assenza di un vestito più elegante fosse dovuta a una mancanza di disponibiiltà o capacità di procurarsene uno. Questa osservazione non solo è stata percepita come fuori luogo, data la situazione di tensione internazionale, ma è anche stata accusata di essere intrisa di un pregiudizio culturalmente insensibile.

Il presidente Zelensky ha risposto con compostezza, dichiarando che si sarebbe preoccupato di indossare abiti formali solo quando la guerra nel suo Paese fosse finita. Con un tono disteso, ha aggiunto che potrebbe scegliere un abito simile a quello del giornalista, di migliore qualità o forse anche uno più economico.

L’episodio ha messo in evidenza come il peggior giornalismo non sia necessariamente legato a un particolare formato mediatico, ma spesso alla qualità delle domande poste e all’approccio dei professionisti stessi. Allo stesso modo, il contrasto tra la spiacevole domanda di Glenn e la dignitosa replica di Zelensky ha rappresentato un vivido esempio di quella che è stata definita “great television”, sebbene in senso negativo.

In un contesto parallelo, il patron di Amazon, Jeff Bezos, ha sollevato un caso riguardante la politica editoriale del Washington Post, imponendo una linea che protegga temi cari a figure come Trump e Musk, quali le libertà personali e il libero mercato. Tali decisioni hanno avuto ripercussioni all’interno del giornale, portando alle dimissioni di David Shipley, responsabile della pagina degli editoriali.

Questi eventi suggeriscono che il giornalismo, nella sua migliore e peggiore espressione, non è definito solo dalle piattaforme su cui si manifesta ma dalle scelte editoriali e dalle domande che ne scaturiscono.

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