Giuseppe Calabrò, noto con il soprannome di “Dutturicchiu”, è una figura enigmatica e affascinante della criminalità organizzata, legato alle cosche calabresi ma mai formalmente condannato per mafia. Nato nelle pendici dell’Aspromonte, originario di San Luca, un paese noto per essere culla della ‘ndrangheta, Calabrò ha costruito attorno a sé un alone di mistero. Il soprannome deriva dalla sua passata intenzione di studiare medicina, prima che gli eventi della vita, inclusi arresti e condanne per vari reati, cambiassero il suo destino.

Nonostante il suo aspetto dimesso e il comportamento tranquillo, Giuseppe Calabrò è considerato una delle figure più influenti del crimine organizzato nel Nord Italia, soprattutto tra le famiglie della ‘ndrangheta che hanno trovato nel settentrione una nuova base operativa. A Milano, dove ha vissuto a lungo e dove la moglie ha lavorato come insegnante, è conosciuto per la sua abilità di muoversi nell’ombra, scivolando tra accuse e sospetti senza mai essere formalmente incriminato per associazione mafiosa.

Un uomo di leggenda

Su Calabrò girano tante storie da farlo sembrare una figura mitologica. Per anni, le forze dell’ordine non sono riuscite a registrare una sua conversazione compromettente, tanto era prudente nel comunicare. Era solito spegnere il cellulare nei momenti critici e durante gli spostamenti, e ogni suo movimento era caratterizzato da una sorveglianza maniacale del territorio circostante. Questo comportamento ha reso quasi impossibile un controllo costante su di lui. Nonostante ciò, l’uomo non si è mai nascosto, mantenendo una routine apparentemente innocua, frequentando bar e giocando a carte come qualsiasi pensionato.

Il suo nome è apparso in numerose indagini legate alla ‘ndrangheta, ma le condanne ricevute riguardano per lo più reati di altra natura, come la detenzione di armi, assegni a vuoto e traffico di droga, quest’ultimo considerato la sua “specialità”. Il suo primo reato risale al 1975, e da allora ha accumulato una lunga serie di condanne, ma sempre evitando quella per mafia, grazie spesso all’insufficienza di prove.

Il processo per il caso Mazzotti

Uno degli episodi più eclatanti che vede coinvolto Calabrò è il processo per il sequestro e l’omicidio di Cristina Mazzotti, avvenuto quasi cinquant’anni fa. Durante le udienze, Calabrò appare come un anziano signore, zoppicante a causa di una vecchia frattura, che si muove con lentezza nell’atrio del tribunale di Como. Sebbene sembri un uomo qualunque, gli investigatori sanno bene chi hanno di fronte: un personaggio scaltro, capace di muovere le fila della criminalità senza mai esporsi direttamente.

La doppia vita di Calabrò

A Bovalino, dove vive oggi, Calabrò mantiene legami profondi con la sua terra d’origine, ma continua a tenere un piede a Milano, città che ha visto parte della sua carriera criminale. Qui, in un ambiente di relazioni famigliari consolidate tra battesimi e matrimoni, Calabrò si è guadagnato una reputazione di uomo “rettilineo” e “affidabile”, qualità che lo hanno reso una sorta di pacificatore all’interno della ‘ndrangheta.

Il suo ruolo è quello di risolutore di problemi. Viene descritto dagli stessi inquirenti come una sorta di “notaio” della mafia calabrese, capace di mediare tra le varie fazioni e di tenere in equilibrio interessi contrastanti. Non agisce mai per proprio tornaconto, ma per il bene dell’organizzazione, amministrando il potere con l’abilità di un giudice saggio.

Legami con la politica e collaboratori di giustizia

Nel corso degli anni, diversi collaboratori di giustizia hanno parlato di lui. Tra questi, Francesco Fonti e Saverio Morabito hanno raccontato di come Calabrò fosse stato coinvolto in operazioni delicate, inclusi sequestri di persona come quello di Cesare Casella. Inoltre, durante il processo Nord-Sud, si è parlato dei suoi presunti legami con personaggi politici di alto livello, come l’ex ministro della Democrazia Cristiana Virginio Rognoni. Questi collegamenti hanno reso ancora più complesso il quadro attorno a Calabrò, uomo di fiducia non solo delle cosche, ma anche di chi, dalla politica, cercava canali di comunicazione con il mondo della malavita.

Un potere che non tramonta

Nonostante l’età avanzata e una lunga carriera segnata da processi e indagini, Calabrò rimane un punto di riferimento per le cosche. La sua figura non incarna il tipico boss mafioso da film, ma piuttosto quella di un amministratore abile e discreto, capace di far funzionare la complessa macchina della ‘ndrangheta senza mai esporsi troppo. Un “ombrello”, come lui stesso si è definito, pronto a proteggere chi ne ha bisogno, ma sempre nell’ombra.

Con un piede sempre tra mito e realtà, Giuseppe Calabrò continua a essere una delle figure più enigmatiche e potenti della criminalità organizzata in Italia.

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