La decisione del Tribunale di Taranto di sospendere la trasmissione della serie Avetrana – Qui non è Hollywood rappresenta un preoccupante ritorno a logiche che ricordano le peggiori distopie orwelliane. La magistratura, accogliendo il ricorso del sindaco di Avetrana, ha stabilito che la serie, che racconta l’omicidio di Sarah Scazzi e il suo impatto sulla comunità, non potrà essere diffusa fino a quando non verrà accertato che non danneggi l’immagine del paese. Una scelta che non solo appare anacronistica, ma che rimanda direttamente a quel controllo sociale e culturale che George Orwell ha così magistralmente descritto in 1984.

Il blocco della serie può essere visto come una forma di censura che punta a mantenere il controllo sulla narrazione, in nome di una presunta “protezione dell’immagine pubblica” della cittadina. In realtà, ciò che si cerca di proteggere non è Avetrana in sé, ma una versione edulcorata e distorta della realtà. Un potere, quello giudiziario, che interviene direttamente sui contenuti artistici e culturali per filtrare ciò che può o non può essere visto dal pubblico, richiama chiaramente il concetto di “Grande Fratello”, il sistema di sorveglianza onnipresente che, nel romanzo di Orwell, manipola la storia e i fatti per mantenere il controllo sulla società.

Questa decisione della magistratura sembra voler dire che non è la realtà del crimine a ferire la reputazione di Avetrana, ma la sua rappresentazione. È un tentativo di riscrivere la storia e di nascondere il passato, come se il solo fatto di non mostrare i tragici eventi potesse cancellarli dalla memoria collettiva. Questo approccio, oltre a essere inquietante, è intrinsecamente fallace. Il crimine che ha scosso Avetrana è parte della sua storia, e cercare di sopprimerne la rappresentazione non farà altro che suscitare maggiore attenzione e curiosità.

In un sistema che si avvicina a quello orwelliano, i fatti non contano più: contano solo le versioni ufficiali, autorizzate e controllate. Bloccare una produzione culturale perché potrebbe “offendere” l’immagine di una città significa entrare in una pericolosa deriva censoria, in cui è il potere a decidere cosa si può sapere e cosa deve essere dimenticato. Questo ricorda la neolingua di Orwell, la lingua inventata dal regime totalitario per limitare il pensiero critico e ridurre la capacità delle persone di esprimere dissenso o interrogarsi sulla realtà.

Il paradosso è che la serie Avetrana – Qui non è Hollywood non si limita a raccontare l’omicidio di Sarah Scazzi, ma riflette anche sul modo in cui la tragedia è stata spettacolarizzata dai media e come la comunità è cambiata sotto l’occhio del circo mediatico. Invece di affrontare questa riflessione necessaria, la magistratura ha preferito imboccare la strada della censura, privando il pubblico della possibilità di formarsi un’opinione autonoma e critica. Proprio come nel mondo orwelliano, si impone una visione unica e controllata della realtà, eliminando tutto ciò che potrebbe disturbare o far riflettere in modo non conforme.

Questa sospensione non è solo un attacco alla libertà artistica, ma anche un segnale preoccupante di come si stia cercando di riscrivere il passato attraverso la manipolazione delle narrazioni. Si pretende di proteggere un’immagine, ma il risultato è un tentativo maldestro di esercitare un controllo sul pensiero collettivo, cercando di limitare il libero flusso delle idee. È l’inizio di una strada scivolosa che ci porta sempre più vicino a un sistema in cui ogni voce indipendente o critica viene soppressa.

La domanda che sorge spontanea è: se si comincia a censurare una serie come Avetrana – Qui non è Hollywood, cosa verrà censurato dopo? La giustificazione della protezione dell’immagine potrebbe essere applicata a qualsiasi contenuto: film, libri, notizie. Non si tratta solo di un pericoloso precedente, ma di un vero e proprio tentativo di controllare le narrazioni pubbliche. E questo ci riporta a un mondo in cui il potere decide cosa si può conoscere, un mondo in cui la verità diventa malleabile, adattabile agli interessi di chi detiene il controllo.

In conclusione, la decisione del Tribunale di Taranto rappresenta una ferita alla libertà di espressione e alla produzione culturale in Italia. Ricorda che la censura, anche se presentata con motivazioni nobili o di protezione, è sempre un passo verso il controllo autoritario del pensiero. In una società libera, la narrazione della realtà – per quanto dolorosa o scomoda – deve poter circolare liberamente, senza che un potere esterno decida cosa è opportuno vedere e cosa no. Altrimenti, il confine tra democrazia e distopia diventa sempre più labile.

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