L’arena fiscale italiana ha vissuto un giorno memorabile il 12 dicembre 2024, quando Ernesto Maria Ruffini, alla guida dell’Agenzia delle Entrate, ha rassegnato le dimissioni, sorprendendo molti. Nelle stesse ore, si chiudeva la finestra per le “adesioni tardive” al concordato fiscale preventivo, che si è rivelata essere un vero e proprio fallimento dopo il magro risultato ottenuto alla prima scadenza di ottobre.

Questo concordato, pensato per offrire una soluzione vantaggiosa alle imprese e ai professionisti disposti a dichiarare un aumento dei loro redditi, è stato ampiamente respinto. Molte aziende, prevedendo di fatturare significativamente di più nel 2024 e 2025 rispetto al 2023, hanno scelto di non aderire. Si tratta di un meccanismo che invita a dichiarare un incremento presunto dei redditi del 10%, sebbene nella realtà tale incremento possa essere ben maggiore, permettendo di beneficiare di aliquote ridotte fra il 10% e il 15%. Addirittura, ci sono organizzazioni con bassi indicatori di fedeltà fiscale che avrebbero potuto trarre vantaggio nonostante siano considerate evasori abituali.

Il concordato è criticato non solo per il linguaggio burocratico poco chiaro, ma perché rappresenta un autentico regalo fiscale. Proposto come un’opzione vantaggiosa, si è invece rivelato un deludente insuccesso. Gli scarsi risultati in termini di adesioni – con appena 522 mila contribuenti, meno del 12% della base potenziale – sottolineano un fallimento a diversi livelli: linguistico, tributario, di credibilità dello Stato e, infine, finanziario. Infatti, invece di portare a un guadagno per le casse pubbliche, si prefigura come una perdita netta.

Un elemento centrale della questione è l’opacità dei dati sull’evasione fiscale. L’ultimo rapporto del Ministero dell’Economia copre fino al 2021, senza fornire dati aggiornati che riflettano l’attuale contesto, dove la soglia per i pagamenti in contanti è stata elevata a 5.000 euro, riducendo il contrasto all’evasione. A ciò si aggiunge una sottovalutazione della reale evasione nel mondo del lavoro autonomo, specialmente tra coloro che superano rapidamente la soglia degli 85.000 euro di reddito, operando in nero per evitare la flat tax del 15%.

In ultima analisi, la riluttanza generale a partecipare a questo concordato riflette un deficit di credibilità nel sistema tributario. Il mancato timore di essere scoperti tra molti contribuenti indica la debolezza dello Stato come ente regolatore efficace. Forse, gran parte della responsabilità di questa situazione va cercata in misure governative che hanno preceduto il concordato, come l’adozione di condoni e un’eccessiva tolleranza nei confronti dell’evasione.

L’adozione di strumenti come l’evasometro, in sostituzione di precedenti metodi più rigidi, ha ulteriormente indebolito il già fragile sistema fiscale italiano. Questo scenario, associato alle dimissioni di Ruffini, ha sollevato molte domande sulla direzione futura della politica fiscale italiana e sulla capacità di affrontare l’annoso problema dell’evasione in maniera efficace e trasparente.

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