Il carcere di Evin, situato a nord di Teheran, è tristemente noto per essere uno dei luoghi di detenzione più oppressivi dell’Iran. A causa dell’elevato numero di intellettuali e dissidenti che vi sono rinchiusi, è stato soprannominato “l’Università”. Tra i prigionieri più illustri, si trova l’italiana Cecilia Sala, giornalista detenuta in questa struttura.
Inaugurato nel 1972, il carcere di Evin si estende su 43 ettari ed è situato ai piedi delle montagne. Inizialmente, era sotto il controllo della Savak, la polizia segreta dello Shah Mohammad Reza Pahlavi. Dopo la rivoluzione islamica guidata da Ruhollah Khomeini, Evin è divenuto un simbolo del regime, rinchiudendo al suo interno sia filo-monarchici sia dissidenti politici.
Uno dei periodi più bui della storia di questo carcere risale al 1988, quando, al termine della guerra con l’Iraq, migliaia di detenuti furono giustiziati in seguito a processi sommari. Anche durante le proteste del 2009, scatenate dalla rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad, molti giovani manifestanti furono incarcerati a Evin, nell’ambito dell’ondata di proteste nota come “Onda Verde”.
Nel corso degli anni, Evin ha ospitato numerosi prigionieri di rilievo internazionale, tra cui il celebre regista Jafar Panahi, che ha denunciato le condizioni disumane della prigione attraverso uno sciopero della fame. Di rilievo sono anche le detenzioni della cittadina britannico-iraniana Nazanin Zaghari-Ratcliffe, della Nobel per la Pace e attivista Narges Mohammadi, e dell’avvocata per i diritti umani Nasrin Sotoudeh. Un episodio recente è quello di Alessia Piperno, giovane romana arrestata a Teheran nel settembre 2022 e successivamente liberata nel novembre dello stesso anno. Durante il periodo della sua prigionia, un incendio, probabilmente causato da una rivolta, scoppiò all’interno del carcere, provocando la morte di diversi detenuti.
La sezione 209, controllata dal ministero dell’Interno, è particolarmente nota per la sua durezza. Ex detenuti hanno riferito di essere stati condotti, bendati, in un seminterrato dove si allineano novanta celle, costantemente illuminate e con finestre minuscole. Abusi e violenze sono all’ordine del giorno, come confermano diverse organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty International.
La sezione 240 di Evin è sinonimo di isolamento estremo. Un esperto nel campo della scrittura ha raccontato in un rapporto di Human Rights Watch che l’esperienza di isolamento in queste celle lascia segni indelebili. Anche dopo essere stati rilasciati, molti ex detenuti continuano a soffrire di disturbi del sonno e di una sensazione di solitudine che faticano a scrollarsi di dosso, tanto da definire quell’isolamento come una vera e propria “tortura bianca”.