Le strade della Siria risuonano di slogan di protesta, mentre il grido “Assad al patibolo” si solleva tra la folla. In questo scenario, il Segretario di Stato americano Antony Blinken si trova a Baghdad, con l’obiettivo di visitare successivamente la Giordania.
Recentemente, l’universo repressivo del regime siriano è stato descritto non solo dai milioni di esiliati ma anche da intraprendenti sopravvissuti e disillusi del regime stesso. Le testimonianze raccolte parlano di torture, sparizioni e crudeltà compiute all’interno delle prigioni politiche e delle stanze del mukhabarat, il famigerato servizio segreto. Tuttavia, negli ultimi giorni, la Siria sembra essere pervasa da un insolito fervore: la libertà di raccontare ciò che era nascosto. Di conseguenza, numerosi ex detenuti e prigionieri liberati dai ribelli la scorsa domenica si sono fatti avanti per rivelare gli orrori subiti. Uomini e donne, colpiti dalla brutalità del regime, hanno aperto i loro cuori ai giornalisti, fornendo dettagli agghiaccianti, ma fondamentali per comprendere l’oppressione nel paese.
All’interno delle prigioni, vigeva addirittura un “alfabeto dell’orrore”. I carcerieri erano mantenuti in stato di anonimato per evitare eventuali ritorsioni future. La benda sugli occhi era obbligatoria per i detenuti che venivano condotti fuori dalle celle, privandoli di ogni identità umana. Ogni cella aveva un “capò”, il quale doveva segnalare i più indisciplinati per essere sottoposti a torture estreme; in caso contrario, egli stesso subiva la punizione. Le docce erano rare e umilianti, amplificando la diffusione di parassiti come zecche e pulci.
Il numero era l’unico modo per riconoscere un detenuto; nomi e identità erano completamente soppressi. I familiari tentavano di pagare per ottenere condizioni migliori per i loro cari incarcerati, ma gli sforzi erano spesso vani. L’orrore assumeva forme mostruose: l’uso della “pressa” a Sednaya per eseguire crudeli punizioni, la distorsione della religione dove “Assad è grande” sostituiva “Dio è grande”. Anche lo stupro era uno strumento di controllo e intimidazione, soprattutto per le donne, minando il tessuto familiare degli oppositori.
Le tecniche di tortura erano innumerevoli e variavano da calci a pestaggi, passando per metodi più elaborati come l’appensione al soffitto. La visita dei parenti, se concessa, significava ulteriori vessazioni per il detenuto, che spesso veniva punito prima dell’incontro. La razione alimentare era spartana e umiliante, con un barattolo di yogurt e un esiguo numero di olive da dividere tra i prigionieri.
Queste pratiche oppressive della dittatura siriana rispecchiano modelli simili a quelli descritti da Vassilis Vassilikos nel suo romanzo sulla dittatura dei colonnelli greci. Nonostante la loro brutalità e l’abilità nello spezzare la volontà dei prigionieri, tali regimi finiscono spesso per soccombere, dimostrando l’incredibile resilienza dell’umanità di fronte alla tirannia.