Il panorama desolante di Banias, in Siria, è un chiaro riflesso della tragedia umana che continua a consumarsi in questa regione. I cadaveri giacciono abbandonati sulle strade deserte, un macabro promemoria del massacro che ha travolto la comunità. Alcuni sono stati coperti alla meno peggio con coperte improvvisate, altri restano esposti agli elementi, perché nessuno osa avvicinarsi per recuperarli.

Nelle strade vicine, le forze governative osservano impassibili. La situazione è tragica, come testimonia un abitante del quartiere di Al Qusur. «La strage è inarrestabile, intere famiglie vengono sterminate. Ci sono cadaveri ovunque, il corpo di mio zio giace ancora sul tetto di casa», racconta con voce rotta dalla disperazione tramite un messaggio.

Auto distrutte, negozi dati alle fiamme e saccheggiati, segnano il passaggio della follia omicida. Un’ambulanza dei Caschi Bianchi procede lenta, alla ricerca di altre vittime, mentre uomini armati pattugliano le vie con il volto coperto. La paura indugia tra gli abitanti, costretti a rifugiarsi in casa, mentre il rumore dei giochi dei bambini si è ormai spento nel silenzio dei tragici eventi.

Non c’è rifugio sicuro. Chi ha perso parenti e amici trova la forza di fuggire in cerca di un riparo momentaneo, in un «posto sicuro» che promette ben poco, considerata la devastazione in corso. I sopravvissuti, come il testimone di Al Qusur, hanno appena il tempo di evitare lo stesso destino cui sono caduti i loro cari. «Se avessimo aspettato qualche minuto in più, forse non saremmo qui», dice con tono grave, mentre racconta delle fosse comuni scavate per i morti.

Questo clima di violenza è intensificato da un improvviso attacco lanciato dalle forze fedeli a Bashar al-Assad, che hanno scatenato una brutale risposta dall’esercito di Ahmed Sharaa. L’escalation ha portato alla morte di centinaia di civili, appartenenti alla comunità alawita, come denunciano diverse ONG siriane. Le stime sulla carneficina variano, con l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani che conta almeno 532 vittime.

Gli insorti, dal canto loro, hanno ucciso un numero considerevole di soldati governativi, suscitando timori di un aumento delle divisioni settarie. Questo scenario spinge i siriani a cercare disperatamente rifugi temporanei, tra chiese cristiane e montagne, nel tentativo di sfuggire alla violenza senza fine. Nelle regioni costiere, il governo centrale ha inviato ulteriori rinforzi nel tentativo di riprendere il controllo.

In questo contesto di caos, le strade da Banias a Homs sono presidiate da checkpoint, e le affiliazioni degli uomini armati che controllano il passaggio sono spesso sconosciute. Molti di questi individui appartengono a gruppi che si identificano con ideologie estremiste, sbandierando vessilli che ricordano i giorni più bui del conflitto siriano.

Le immagini che giungono da Banias sembrano riportare indietro le lancette della storia, richiamando alla memoria i massacri che caratterizzarono il regime di Assad. I brutalità cui stiamo assistendo oggi non sono nuove: già nel 2013 la città fu teatro di atrocità simili, con i miliziani alawiti che si macchiarono di crimini contro civili innocenti.

In questo contesto, il capo del governo Sharaa si è rivolto alla nazione con un discorso che non ha affatto rassicurato le vittime. Pur elogiando i soldati per il «sacrificio» nel proteggere i civili, Sharaa non ha esitato a puntare il dito contro i sostenitori di Assad, che secondo lui tentano di destabilizzare ulteriormente la regione.

Con le tensioni che continuano a incrinare il tessuto sociale siriano, le divisioni settarie rischiano di esplodere, esacerbate dalla violenza indiscriminata che ha preso piede nell’ultimo periodo. I giorni che verranno saranno determinanti per la Siria, chiamata a confrontarsi non solo con i suoi fantasmi del passato, ma anche con la sfida di costruire un futuro in cui l’odio non possa più avere la meglio sulla convivenza pacifica.

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