In un contesto di crisi globale, la sinistra, un tempo portatrice di ideali di progresso e giustizia sociale, sembra essersi arenata su scorciatoie sterili e autolesioniste, che hanno lasciato il campo aperto a nuovi protagonisti della scena politica mondiale. Mentre l’opposizione si riappropria di un linguaggio diretto e di un approccio che mobilita la pancia e il cuore degli elettori, la sinistra, incapace di rispondere in modo convincente alle sfide contemporanee, si rifugia in un copione fatto di denigrazione dell’avversario, azioni giudiziarie, e la retorica di un presunto “pensiero unico” a cui ci si deve uniformare.

La strategia della denigrazione è ormai un pilastro comunicativo, un processo quasi automatico che scatena critiche sistematiche verso chiunque si discosti dalla visione dominante. Tale approccio, per quanto possa apparire efficace nell’immediato, ha finito per creare una frattura profonda tra la sinistra e quella parte dell’elettorato che non si riconosce in un pensiero uniforme. Più che cercare il dialogo, troppo spesso si è preferito ridicolizzare l’avversario, affidandosi ai lustrini delle celebrities e all’influenza dei personaggi mediatici, come se un endorsement hollywoodiano potesse effettivamente spostare le convinzioni profonde delle persone comuni. Il risultato? Un pubblico disincantato, diffidente verso ogni messaggio percepito come parte di un’élite distante dalla realtà.

Parallelamente, si è assistito a un opaco miscuglio tra politica e giustizia, dove i processi giudiziari sono diventati parte integrante della strategia di contrasto all’avversario politico. In questa prospettiva, il magistrato di turno assume quasi il ruolo di arbitro morale, chiamato a giudicare comportamenti e intenzioni in nome della “verità”. Ma è giusto che la magistratura si sostituisca alla politica? In un sistema democratico sano, le scelte e i valori non dovrebbero essere decisi nelle aule di tribunale, ma nelle piazze e nei parlamenti.

Tale inclinazione a delegare ai giudici le sorti della politica ha progressivamente atrofizzato la capacità della sinistra di fare politica attiva, e ha finito per abbandonare ogni spazio di confronto con l’elettorato, affidandosi invece all’intervento di un Presidente della Repubblica chiamato a formare, a volte contro la volontà popolare, governi tecnici. Così facendo, ha creato un’alternativa politica che si presenta come unica soluzione all’estremismo di destra, piuttosto che una proposta concreta capace di raccogliere consenso autonomamente. Di fronte a una sinistra che sembra più interessata a tenere il proprio avversario fuori dai giochi che a competere lealmente con lui, non ci si può sorprendere che molti elettori siano disposti a votare per alternative come Donald Trump.

Trump, per quanto divisivo e controverso, è percepito come una figura autentica che sfida apertamente il “sistema”, e per molti rappresenta un modo di esprimere il proprio dissenso contro l’immobilismo di un’élite politica che non sembra comprendere più i reali problemi delle persone. È un voto che può sembrare impulsivo, rabbioso o addirittura autodistruttivo, ma che è anche un grido di richiesta per un cambiamento.

Alla sinistra spetta ora un compito arduo ma non impossibile: abbandonare la strategia delle scorciatoie giudiziarie, degli insulti e del ricorso agli appoggi istituzionali e mediatici, per riscoprire un linguaggio di prossimità, di visione e di speranza. Un linguaggio che non bolla l’avversario come il “male assoluto”, ma lo riconosca come l’espressione di un disagio reale che ha bisogno di risposte concrete e immediate. Finché ciò non accadrà, continuerà a vincere chi avrà il coraggio di raccontare, per quanto in modo controverso, una realtà in cui molti si riconoscono.

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