Dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989, con la fine del grande scontro ideologico tra comunismo e capitalismo, la polarizzazione politica sembra essersi spostata su un nuovo fronte: quello tra la provincia e la città. Una dinamica che, sebbene sempre esistita e magistralmente raccontata da autori come Cesare Pavese, ha assunto oggi un ruolo centrale nell’epoca della globalizzazione, diventando la principale linea di divisione politica e culturale.

L’assenza delle grandi ideologie ha aperto lo spazio a nuove forme di scontro sociale, in cui il divario tra i piccoli centri e le grandi metropoli si è trasformato nel terreno di battaglia principale. Negli ultimi decenni, vari leader politici hanno capitalizzato su questa spaccatura. In Italia, il fenomeno ha avuto inizio con Silvio Berlusconi, che sebbene partito come uomo di provincia, si è poi evoluto in una figura sempre più urbana e cosmopolita. La Lega di Matteo Salvini rappresenta invece l’esempio più recente di un movimento che trae la sua forza dalla provincia, cavalcando le paure e le insicurezze delle zone lontane dai grandi centri.

Oltre l’Italia, il caso più eclatante è senza dubbio quello di Donald Trump negli Stati Uniti. Trump ha saputo interpretare il malessere dell’America profonda, quella delle piccole città e delle zone rurali, lontana dai riflettori delle grandi metropoli come New York o Los Angeles. Un fenomeno simile si è visto in Europa, dove Viktor Orban in Ungheria e il movimento della Brexit nel Regno Unito hanno entrambi raccolto consensi soprattutto fuori dalle grandi città. La stessa Marine Le Pen in Francia ha costruito il suo successo elettorale nelle aree rurali e provinciali, molto distanti dal lusso e dal cosmopolitismo di Parigi.

Anche la guerra in Ucraina trova parte del suo consenso più radicale nelle zone rurali della Russia, dove il sostegno a Vladimir Putin è più radicato rispetto ai centri urbani.

Ciò che accomuna questi leader è la loro capacità di intercettare il malcontento della provincia, anche se, una volta al potere, tendono a tradirne le aspettative. Invece di appianare le differenze e fornire alla provincia maggiori opportunità di sviluppo economico e sociale, essi spesso esaltano il suo isolamento, alimentando rabbia e frustrazione. La narrazione della provincia dimenticata diventa così il motore del consenso, rafforzando la sensazione di essere abbandonati dalle élite urbane.

Questa divisione non va sottovalutata, poiché ha un impatto significativo sulla politica globale. La maggior parte delle persone, infatti, vive in piccoli centri piuttosto che nelle grandi città. La provincia rappresenta una realtà complessa, carica di tensioni che possono facilmente essere strumentalizzate da chi sa come interpretarne il disagio.

La frattura tra città e provincia non riguarda solo lo stile di vita o l’accesso ai servizi, ma rappresenta una vera e propria divisione culturale e politica. Capire e affrontare questa polarizzazione sarà fondamentale per costruire un dialogo che non si limiti a sfruttare la rabbia della provincia, ma che la integri nel progresso sociale ed economico del Paese.

4 pensiero su “La Le Pen e la battaglia tra città e paese”
  1. Ue’, ma sapete che alla fine siamo noi della provincia che facciamo girare il mondo? Anche se la città è più avanti, le radici della cultura e della tradizione sono nei piccoli centri. Dobbiamo valorizzare la nostra ricchezza!

  2. Comunque, secondo me, Trump e gli altri citati nel testo hanno solo approfittato della situazione. Sono bravi a fare promesse, ma non a mantenerle. Poi, alla fine, lasciano la provincia sempre indietro. Troppo facile così!

  3. Finalmente qualcuno che parla di cose serie! È vero che c’è una frattura tra città e campagna, e i politici ci sguazzano! Basta, dovrebbero lavorare per unire le persone, non per dividerle ancora di più.

  4. Beh, tutta sta storia della provincia contro la città mi sembra un po esagerata, dai! Non è che non si può vivere bene anche in un piccolo paese. Certo che la vita in città è diversa, ma quello non vuol dire che dobbiamo fare la guerra, no?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *