In Italia, il dibattito sull’autonomia delle istituzioni e la separazione dei poteri è tornato alla ribalta, sollevando interrogativi su uno dei principi fondanti della democrazia: l’equilibrio tra politica e magistratura. Recentemente, il magistrato Stefano Musolino ha suggerito pubblicamente la necessità di rivedere i criteri di selezione della classe politica, auspicando una “migliore selezione” dei rappresentanti politici. Tuttavia, l’intervento di un magistrato su una questione teoricamente estranea alla sua funzione solleva una domanda cruciale: cosa accadrebbe se un politico proponesse criteri di selezione per i magistrati? Verrebbe immediatamente accusato di voler minare l’indipendenza del sistema giudiziario?
È facile immaginare le critiche che travolgerebbero un politico che avanzasse simili proposte. Le accuse di “attacco all’autonomia” sarebbero probabilmente seguite da critiche sulla presunta volontà di indebolire l’indipendenza della magistratura. Tuttavia, la reazione appare molto diversa quando è un magistrato a pronunciarsi sulla politica.
Questo squilibrio sembra indicare una concezione dell’autonomia a senso unico, dove la magistratura può intervenire nelle questioni politiche, mentre qualsiasi commento politico sui criteri di selezione dei magistrati viene considerato un’ingerenza inaccettabile. Se davvero le istituzioni devono rimanere indipendenti e autonome, ci si aspetterebbe che la magistratura si astenga dal suggerire modalità di selezione della classe politica. Il rischio è che questa situazione crei uno sbilanciamento tra i poteri, incompatibile con una democrazia sana.
Le implicazioni di questo fenomeno sono evidenti anche nelle recenti indagini che hanno coinvolto figure politiche di spicco come Matteo Salvini e Giovanni Toti. In Liguria, ad esempio, le intercettazioni e le indagini invasive sono state condotte con un’intensità che ricorda le pratiche di stati autoritari, risultando sproporzionate rispetto alla rilevanza dei fatti oggetto di indagine. Anche il caso di Salvini ha visto un dispiego mediatico e investigativo elevato, con accuse che non hanno condotto a esiti definitivi di colpevolezza, ma che hanno sollevato interrogativi sull’effettiva imparzialità della magistratura.
Molti osservatori si domandano se la magistratura stia utilizzando le proprie prerogative con eccessivo zelo o, peggio, per indirizzare la selezione politica. Quando la politica è posta sotto una “sorveglianza” giudiziaria costante e le inchieste si concentrano su figure di una specifica area politica, diventa lecito domandarsi se non ci sia un tentativo di interferire nella selezione della classe politica. Se a ciò si aggiungono le dichiarazioni pubbliche di diversi magistrati, spesso orientate esclusivamente a criticare esponenti del centrodestra e le loro politiche, il dubbio si intensifica.
In questo contesto, è comprensibile che una parte dell’opinione pubblica provi insicurezza e sfiducia nel sistema democratico. Quando le istituzioni appaiono faziose e il confine tra autonomia e privilegio per prevalere sugli altri poteri dello Stato si fa sempre più labile, la democrazia stessa rischia di mostrarsi fragile.
Alla base di queste dinamiche, emerge un nodo irrisolto sul ruolo e sui limiti del potere della magistratura rispetto a quello politico. L’autonomia della magistratura è stata istituita per garantire una giustizia imparziale, libera da influenze politiche. Tuttavia, se questa autonomia viene interpretata come un privilegio unilaterale, il delicato equilibrio tra i poteri rischia di spezzarsi. Per garantire una democrazia solida, è necessario ristabilire un bilanciamento autentico, in cui ogni istituzione rispetti le prerogative dell’altra, evitando interferenze indebite.