Negli ultimi tempi, il dibattito sulla necessità di una riforma della magistratura in Italia si è intensificato. Al centro di questa discussione c’è la difesa da parte dei magistrati del proprio status quo, una difesa che rischia di profilarsi come un ennesimo caso di negazione della realtà. Il problema non è tanto se una riforma sia necessaria, quanto piuttosto il fatto che, di fronte a ogni proposta concreta, si alzano immediatamente barriere e si attivano tattiche di depistaggio. È una resistenza che sembra basarsi su quel tipico vizio italiano: credere che gli asini possano volare.
Secondo molti esponenti della magistratura, una riforma è inevitabile. Non tanto perché lo ritengano davvero urgente, ma più per l’insostenibilità di negarne la necessità. L’Unione Europea, il Presidente della Repubblica e persino l’opinione pubblica esercitano una pressione crescente in tal senso. Tuttavia, quando si cerca di capire quale riforma, secondo i magistrati, sia auspicabile, la risposta rimane vaga. Ogni tentativo di modificare il sistema viene accolto con una resistenza feroce, come se tutto funzionasse già alla perfezione.
È qui che scatta quello che molti definiscono il “benaltrismo”. La tattica di spostare il discorso su un altro piano, evitando di affrontare i veri problemi. Ogni volta che si propone un cambiamento, la risposta è la stessa: “Il problema è altrove”. La giustizia italiana, secondo questa narrativa, funziona bene così com’è, e ciò che andrebbe modificato non è mai il cuore del sistema, ma qualche aspetto secondario e irrilevante.
Un altro mantra ripetuto dalla magistratura è che le riforme non devono avere intenti “punitivi”. Si parla di sacrifici già fatti, di un sistema che, pur con qualche difficoltà, avrebbe saputo resistere alle sfide del tempo. Questo pietismo serve spesso a disinnescare le critiche, suggerendo che ogni richiesta di cambiamento sia in fondo un attacco immotivato a chi ha già dato tanto al Paese.
Ma la parte più controversa della difesa del proprio status quo riguarda la politicizzazione della magistratura. Secondo i magistrati, il fenomeno delle “correnti” è una bufala, e non esiste un reale problema di commistione tra giustizia e politica. Anzi, alcuni sostengono che un magistrato possa tranquillamente entrare in politica e, una volta finita l’esperienza, tornare a essere imparziale. Si arriva perfino a ipotizzare la possibilità di conciliare contemporaneamente i due ruoli: il magistrato la mattina, il militante di partito il pomeriggio.
Questa negazione della realtà è l’elemento più pericoloso. Nella retorica di chi si oppone alle riforme, sembra esserci l’assunzione che gli italiani siano disposti a credere qualsiasi cosa, anche che “gli asini volano”, purché si evochi una minaccia alla democrazia o un qualche rischio indefinito. Si cerca di dipingere chi vuole cambiare il sistema come un pericolo per le istituzioni, utilizzando argomentazioni sottili ma efficaci per alimentare la paura di un collasso democratico.
La verità, però, è che il sistema giudiziario italiano presenta problemi evidenti. La lentezza dei processi, la politicizzazione interna e il ruolo eccessivo delle correnti sono temi che non possono più essere ignorati. Continuare a negare l’esistenza di queste problematiche, o minimizzarle, non fa altro che perpetuare una situazione di immobilismo che danneggia il Paese. Le riforme non devono essere punitive, ma necessarie per riportare la giustizia al servizio dei cittadini.
In questo contesto, la negazione dei fatti non è solo un errore strategico, ma anche una forma di autoinganno che rischia di far perdere alla magistratura la fiducia dei cittadini. E se c’è una cosa che la storia insegna, è che non si può ignorare la realtà per sempre. Prima o poi, il cambiamento arriva, e quando lo fa, è sempre meglio esserne parte attiva piuttosto che subirlo passivamente.