A due anni dalla morte di Mahsa Amini, la giovane iraniana arrestata e uccisa dalla polizia morale perché non indossava correttamente il velo, la copertura mediatica sulle violenze e le repressioni in Iran è diventata sempre più frammentaria e superficiale. Ciò che inizialmente sembrava una grande ondata di indignazione globale, capace di far alzare la voce dei media, si è rapidamente affievolita, lasciando il dramma delle donne iraniane in una pericolosa zona d’ombra.

Le immagini delle manifestazioni di protesta, guidate da donne coraggiose che bruciavano i loro hijab per rivendicare libertà e dignità, sono ormai svanite dai notiziari. Eppure, l’Iran ha continuato a reprimere con estrema violenza le rivolte. Ragazze adolescenti gassate nelle scuole, migliaia di manifestanti incarcerati, torturati e spesso giustiziati nel silenzio quasi totale. Le notizie che trapelano parlano di un regime che non ha mai smesso di soffocare le voci di dissenso, soprattutto quelle delle donne, ma le cronache mainstream sembrano essersi disinteressate. Perché?

Uno dei motivi potrebbe essere legato alla delicata posizione che l’Iran occupa nello scacchiere geopolitico. Nemico giurato di Israele e fervente sostenitore della causa palestinese, l’Iran si trova, ironicamente, dalla stessa parte di una certa sinistra liberal occidentale che ha sempre difeso i diritti dei palestinesi e criticato l’occupazione israeliana. In questo scenario, l’Iran diventa il “nemico del mio nemico”, e come tale, meritevole di una certa indulgenza, se non addirittura di una tacita protezione mediatica. Le atrocità compiute dal regime di Teheran, seppur condannate, finiscono per essere sussurrate e non urlate, soffocate da priorità geopolitiche.

La narrativa potrebbe essere riassunta con il proverbio: “Il nemico del mio nemico è mio amico”. Ma cosa succede quando questo “amico” si macchia delle peggiori nefandezze? La morte di Mahsa Amini e il successivo martirio delle donne iraniane non hanno scosso il sistema di valori di quella parte dell’op

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