L’arte può toccare temi cupi senza indulgere nella tragedia, e l’opera “L’Isola dei Morti” di Arnold Böcklin ne è un esempio emblematico. Questo dipinto, nato alla fine dell’Ottocento, si è rivelato una delle immagini più influenti e riconoscibili di quell’epoca, arrivando a coinvolgere figure di spicco della politica, della psicoanalisi e della letteratura del Novecento. Un’opera che Hitler ammirava e che acquistò nella sua terza versione, ora conservata alla Alte Nationalgalerie di Berlino. Anche Lenin e Freud ne rimasero affascinati: il primo confessò di esserne stato ossessionato per anni, mentre Freud ne conservava una riproduzione nel suo studio, riconoscendone il valore simbolico e psicologico.
A uno sguardo attento, “L’Isola dei Morti” non sembra un’opera mirata a suscitare angoscia o sofferenza, pur trattando il tema della morte. Böcklin rappresenta una scena composta da una piccola isola rocciosa avvolta da un boschetto di cipressi. Verso la riva si avvicina una barca guidata da una figura bianca, solenne ma serena. Il quadro non ha i tratti tragici di un cimitero, ma somiglia piuttosto a un sogno silenzioso. Böcklin stesso descrisse la sua opera come “un’immagine onirica” che evocasse un tale senso di quiete da suscitare quasi paura per ogni suono improvviso. L’artista svizzero aveva infatti lavorato molto per rappresentare la morte in modo “lieve”, un’idea che portasse a concepirla non come fine infausto, ma come un sereno passaggio.
Il contesto storico in cui nacque “L’Isola dei Morti” è segnato dalla vita personale dell’artista e dalle sue perdite familiari. La prima versione del dipinto venne realizzata a Firenze, poco dopo la morte della figlia Maria, una bambina di appena un anno. L’isola al centro del quadro richiama elementi del Cimitero degli Inglesi di Firenze, dove la piccola fu tumulata, creando un sottile collegamento tra la realtà e la rappresentazione metafisica del trapasso. Böcklin però elimina completamente la tragicità della morte: l’assenza di disperazione e di rimpianto rende il quadro un luogo di pace più che di dolore.
L’effetto ipnotico dell’opera ha ispirato molte figure, anche al di fuori del mondo delle arti visive. Il compositore Rachmaninov, ad esempio, ha scritto un poema sinfonico basato su questo quadro, e il drammaturgo August Strindberg lo ha richiamato nella sua “Sonata degli spettri”. Da un lato, l’opera di Böcklin ricorda il mondo mitologico, la barca ricorda Caronte, il traghettatore delle anime. Ma il dipinto non evoca il terrore, bensì un senso di inevitabilità serena, come se il viaggio verso l’isola fosse una tappa naturale del ciclo della vita. La figura bianca che si avvicina alla riva non sembra riluttante, né impaziente: guarda avanti con pacatezza, e questo dettaglio la distacca da ogni immagine tragica della morte.
Böcklin, con la sua origine svizzera, ha fuso nelle sue opere la tradizione nordica, più rigida e simbolica, con quella mediterranea, più aperta e naturale. Dopo aver trascorso vari anni a Roma, si stabilì definitivamente in Italia, vivendo tra le colline fiorentine, dove trovò un equilibrio personale e creativo. In lui, il senso luterano della vita e della morte si sposava con una visione naturalista che lo spinse a dipingere non solo la realtà, ma anche quella percezione interiore della vita e della morte che gli era stata trasmessa dalla fede. Böcklin era consapevole che questo dipinto rappresentava una visione atemporale della morte, lontana dalle inquietudini terrene. Così, L’Isola dei Morti divenne un’opera senza tempo, ammirata e influente anche per artisti come Dalí e De Chirico.
“L’Isola dei Morti” si impone come un’opera in cui la morte è espressa senza lutto o paura, ma piuttosto come un momento di calma e serenità. Con questa scena onirica, Böcklin sembra dirci che la morte può essere accolta come parte del viaggio, con un approccio non dettato dal dolore ma dal silenzio meditativo e dalla quiete.