Il 7 marzo del 1975 segna l’uscita di “Profondo Rosso” di Dario Argento, pellicola epocale che segna un punto di svolta sia nella carriera del regista che nel panorama del genere. Dopo aver ridefinito le coordinate del giallo italiano con la “trilogia degli animali” e aver fatto un’incursione storica con “Le cinque giornate”, Argento crea un’opera che amalgama la tradizione poliziesca con elementi di horror paranormale, spingendo i limiti della rappresentazione visiva e concettuale.
La trama segue Marc Daly, un musicista testimone di un omicidio, che si ritrova invischiato in un intricato mistero dopo aver assistito al brutale assassinio della medium Helga Ulmann. Supportato dalla giornalista Gianna Brezzi, Marc inizia una pericolosa indagine che lo immerge in un labirinto di segreti, tra indizi nascosti e la scoperta di una realtà sospesa tra l’inconscio e l’ignoto.
Il film è un’elegante costruzione visiva, in cui Argento abbandona il minimalismo iniziale per abbracciare un’estetica complessa e audace. L’uso della cinepresa risulta vibrante e dinamicizzato, accentuato dalle lunghe carrellate e dalle angosciose inquadrature soggettive. Il rosso intenso, simbolo di sangue e passione, permea l’intera pellicola, mentre la colonna sonora dei Goblin e Giorgio Gaslini contribuisce a creare un’atmosfera indimenticabile.
Tuttavia, ciò che rende “Profondo Rosso” un capolavoro senza tempo è l’intreccio di tematiche psicoanalitiche, care ad Argento. Marc, personaggio centrale, è trascinato in un vortice di memorie rimosse e percezioni ingannevoli, rispecchiando la ricerca del soggetto freudiano della verità recondita. L’assassino, invece, incarna il ritorno del rimosso, concetto lacaniano del reale che si manifesta ciclicamente attraverso il trauma.
Argento, inoltre, gioca abilmente con i riflessi e la distorsione ottica, rappresentando la realtà come un mosaico di immagini frammentate, esplorando il concetto dell’Unheimlich, dove familiare e sconosciuto coesistono. La villa abbandonata diviene metafora del passato sepolto, mentre i moderni interni suggeriscono un conflitto tra razionalità e follia, arte e architettura arricchiscono tale simbolismo sottolineando le tensioni nascoste.
Infine, Argento sovverte anche gli stereotipi di genere e sessualità, con personaggi che riflettono sulle dinamiche identitarie e sociali, sfidando le convenzioni. La narrativa si svela come un commento attuale sull’intreccio di realtà e percezione, manipolando lo spettatore con indizi visivi subdoli che rimangono nascosti fino alla rivelazione finale.
“Profondo Rosso” non è solo un thriller ma una riflessione sull’arte della visione stessa, una fusione di horror e rock che segna un’epoca. Anche a cinquant’anni dalla sua uscita, rimane un’esperienza cinematografica straordinaria, dimostrando ancora una volta la maestria di Argento nel trasportare lo spettatore in un mondo di inquietudine estetica e psicologica.