Ero seduto su una panchina del parchetto vicino all’albergo. Guardavo dei piccioni. Li avrò fissati per mezz’ora, forse anche di più. Senza pensare, senza parlare. Intanto attorno a me la gente andava e veniva, nella tranquillità di una domenica mattina. Ma facciamo un passo indietro.
Come previsto, la mattina dopo il mio arrivo, vennero a svegliarmi per cambiare stanza. Erano tre cameriere sudamericane, un po’ in carne. Con tanto di divisa e ramazze per riassettare.
Mi svegliai intontito dal sonno, con ancora addosso la stanchezza della giornata precedente. Cercai la scaletta per scendere dal letto a castello, non la trovai. Iniziai a calarmi tentando di toccare il pavimento con i piedi. Il letto era abbastanza alto. Ad un certo punto saltai. Quello fu l’inizio della fine. Almeno per la mia vacanza. Mi ritrovai con la testa al di là del vetro della finsetra che avevo di fronte. L’avevo rotto. Mi toccai la fronte e quando vidi la mia mano era piena di sangue. Le cameriere concitate non facevano che urlare e parlare. Mi passarono un asciugamano, poi mi portarono al bagno.
La direzione dell’ostello decise che era il caso di portarmi all’ospedale. In breve mi ritrovai in un’ambulanza, con due infermieri spagnoli. Uno dei quali mi disse di stare tranquillo, che nel giro di due massimo tre ore non avrei avuto più nulla. Non andò proprio così.
All’ospedale una dottoressa, molto giovane, avrà avuto si e no trentacinque anni. Mi mise i punti sulla fronte, sette. Punti interni. Fece un bel lavoro, ma dovevo comunque portare un cerotto, molto vistoso, almeno per una decina di giorni.
Il viaggio cambiò decisamente prospettiva.
Oh mamma mia! Che avventura assurda!